«Le avversità non le affrontiamo perché sono difficili, ma sono difficili perché non le affrontiamo».
Seneca
“Crisi depressive”, “depressione stagionale”, “depressione post-partum” sono solo alcune definizioni, molto utilizzate ai giorni nostri, per descrivere situazioni di disagio assai comuni. Malattie che vengono diagnosticate con particolare frequenza, anche quando la persona che ne soffre ha in realtà altri problemi.
All’interno della mia esperienza clinica e di quella di altri colleghi selezionati del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, la depressione spesso si manifesta, nel paziente, come l’esito finale e reattivo di altre patologie, quali ad esempio disturbi fobici e ossessivi, problemi di relazione, disturbi alimentari o disturbi della personalità.
Siamo di fronte quindi, ad un termine molto controverso, forse il più abusato degli ultimi vent’anni, che descrive una condizione di profondo dolore e sofferenza, della quale si sono occupati non solo medici e psicologi, ma anche letterati e religiosi.
Secondo Umberto Galimberti, intervistato da Luca Mazzucchelli all’interno della rivista Psicologia contemporanea (maggio-giugno 2018), nel tempo è cambiata anche la natura della depressione. Fino al 1960, essa si incentrava sul senso di colpa, sul permesso/proibito, poiché la società era fondata sulla disciplina, mentre ai giorni nostri è imperniata sul senso di inadeguatezza, sul “ce la faccio/non ce la faccio”.
Il soggetto che ne soffre appare incapace di fare qualunque cosa. Il suo comportamento è rallentato e demotivato, i pensieri sono negativi e pessimisti, il piacere, in qualunque sua forma, assente.
In un’ottica strategica, che si occupa non della “causa prima” di un problema, ma di quello che è il suo funzionamento, l’ideazione depressiva si mantiene in virtù di come il paziente si relaziona con se stesso, gli altri ed il mondo che lo circonda.
La depressione non viene concepita come una malattia, ma come una forma di disagio molto sofferta che si manifesta con molti volti, tutti accomunati da uno stesso atteggiamento comune: la rinuncia.
Questa modalità ridondante di reazione da parte del paziente depresso, quando coinvolge tutte le sfere dell’esistenza, caratterizza gli stati depressivi più gravi, cioè quelli che spesso approdano all’ambulatorio psichiatrico oppure allo studio di uno psicoterapeuta.
La persona che soffre di depressione tende a rimandare e a non prendere decisioni, poiché, sentendosi debole, è convinta che non sia possibile modificare ciò che la fa stare male (il destino avverso, la sfortuna che si accanisce e così via).
Tutto diventa incredibilmente difficile e faticoso e il rinunciare continuamente al tentativo di migliorare la propria vita pone il soggetto nel ruolo di vittima.
Oltre alla rinuncia, altre due “psicotrappole” molto usuali, delle persone depresse, che contribuiscono a mantenere e a far peggiorare la situazione problematica, sono: delegare continuamente ad altri, farmaci, famigliari o partner, la responsabilità di farle stare bene, il lamentarsi continuamente della loro condizione di sofferenza, oppure, al contrario, chiudersi nel silenzio più assoluto.
Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, per diagnosticare un disturbo depressivo dell’umore, il paziente dovrebbe presentare, per un periodo di almeno due settimane, quasi ogni giorno, almeno cinque tra i seguenti sintomi:
Gli altri criteri che devono essere soddisfatti per porre diagnosi di depressione, in base al DSM, sono:
Il DSM-5 pone la depressione nella categoria dei disturbi dell’umore e suggerisce di distinguere i “disturbi depressivi con un singolo episodio”, cioè che compaiono una sola volta, da quelli “ricorrenti”, ovvero che si verificano con continuità dopo un intervallo di almeno due mesi.
In Terapia Breve Strategica, il trattamento della depressione procede attraverso una sequenza di manovre terapeutiche, che conducano il paziente ad effettuare, gradualmente, esperienze nuove e concrete di cambiamento.
Una tecnica molto utilizzata ad esempio, è quella di invitare il paziente a descrivere in forma scritta e in maniera dettagliata tutte le esperienze di insuccesso e di fallimento della sua vita, “contemplando in maniera obiettiva e distaccata tutto lo splendore dei disastri realizzati”.
Come diceva Robert Frost, infatti: “Il miglior modo per venirne fuori è passarci nel mezzo”, pertanto, la persona, scrivendo ripetutamente le cose che in passato l’hanno fatta soffrire, riesce a canalizzare le proprie emozioni negative e a farle defluire.
Molto spesso avviene inoltre che, all’interno dell’intervento strategico con il paziente depresso, vengano coinvolti anche i famigliari, ai quali usualmente si chiede di applicare la tecnica del pulpito serale, ovvero fornire alla persona uno spazio e un tempo prefissati dove concentrare le proprie lamentazioni, evitando assolutamente di parlarne al di fuori di questo momento terapeutico, attraverso la manovra della congiura del silenzio.
Questa tecnica ha lo scopo di schiodare il paziente dal ruolo di vittima, rendendo volontarie le sue lamentele e perciò più controllabili.
Grazie al fatto che i famigliari, durante il pulpito, rimangono in “religioso silenzio” inoltre, si rovescia la dinamica relazionale usuale, facendo in modo che essa non sia più unicamente caratterizzata dalla patologia depressiva.
Nella’ambito della psichiatria biologica, si tende a considerare la depressione come il diabete, una malattia cronica che può essere solo tenuta a bada, mentre in realtà può essere superata del tutto.
In molti casi infatti, la depressione non è la conseguenza di alterazioni biochimiche a livello cerebrale, ma il frutto di una modalità disfunzionale di interpretare e di reagire alle esperienze della vita.
Non sempre per curare questo disturbo, è necessario ricorrere a terapie farmacologiche, i cui effetti collaterali potrebbero essere più devastanti della malattia stessa.
A volte, è possibile ottenere il massimo risultato terapeutico con interventi minimali e non intrusivi, che vadano a riattivare le risorse personali dei soggetti fino ad allora bloccate dalla patologia.
Tutte le linee guida concordano nel ritenere che, nelle forme lievi di depressione, il primo tipo di trattamento dovrebbe essere psicoterapeutico. In ogni caso, la psicoterapia combinata agli antidepressivi risulta nettamente più efficace della sola terapia farmacologica, anche qualora la depressione sia severa o cronica.
Un libro di riferimento molto semplice e chiaro sul tema della depressione, è stato scritto da tre psicoterapeute selezionate del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, Emanuela Muriana, Laura Pettenò e Tiziana Verbitz e si intitola “I volti della depressione. Abbandonare il ruolo della vittima: curarsi con la psicoterapia in tempi brevi” (Milano, Ponte alle Grazie, 2006).
In questo testo, le autrici illustrano le caratteristiche sintomatiche e le modalità di funzionamento delle diverse forme di depressione, mostrando come il modello di Terapia Breve Strategica intervenga con successo su questa patologia fin dalle prime sedute.
Il libro si apre con una storia evolutiva del termine depressione nelle sue varie accezioni, per arrivare a quella che è la “malattia del secolo” della moderna psichiatria.
Vengono successivamente riportati i dati della ricerca empirica condotta dalle tre autrici, attraverso il confronto con i colleghi e la supervisione di Giorgio Nardone, che ha permesso loro di mettere a punto specifici protocolli di trattamento per le differenti forme di depressione.
Emanuela Muriana, Laura Pettenò e Tiziana Verbitz individuano infatti, alcune varianti del disturbo depressivo: il depresso radicale, cioè colui che crede di essere sempre stato sfortunato o limitato, l’illuso-deluso degli altri o di sé, la persona che si sente tradita o che si è resa conto di non essere ciò che pensava, il moralista, colui che è convinto di essere nel giusto e che il mondo sia sbagliato.
Per ciascuna di esse, vengono riportati alcuni esempi tratti dall’attività clinica e le considerazioni circa le modalità di intervento terapeutico.
In appendice, considerando che il libro è rivolto sia al grande pubblico che agli specialisti del settore, viene riportata la trascrizione integrale delle prime quattro sedute di un caso di depressione condotto da Giorgio Nardone presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo.
Puoi vedere una breve presentazione di queso testo in questo video tratto dalla Rubrica “#gliautoripresentano” di Cristina di Loreto.
Un altro testo che affronta il tema è stato scritto nel 2002 da Michael D. Yapko e si intitola “Rompere gli schemi della depressione” (Milano, Ponte alle Grazie).
L’autore è uno psicoterapeuta e ricercatore californiano, conosciuto a livello internazionale per la cura della depressione in tempi brevi.
Nel libro, che è una sorta di manuale di auto-aiuto per la depressione, si afferma come questa patologia sia in realtà una “pecora mascherata da lupo”, poiché può essere risolta efficacemente e i risultati possono durare per tutta la vita.
L’errore più comune delle persone depresse consiste, secondo Yapko, nel fatto che spesso purtroppo pensano e agiscono basandosi su una prospettiva depressiva, ma credendo che sia la verità assoluta.
La depressione non rappresenta una malattia biologica, ma è la conseguenza di modi alterati di interpretare e reagire alle esperienze. Dare farmaci antidepressivi a un paziente, senza insegnargli nuove modalità di pensiero o di porsi all’interno delle relazioni interpersonali, non è quindi il modo migliore per aiutarlo.
Nei primi tre capitoli, l’autore fornisce una cornice utile per inquadrare il tema della depressione, presentando i sintomi prevalenti, la diagnosi e le sue componenti biologiche, psicologiche e sociali.
Dal quarto capitolo in poi, invece, spiega cosa la persona depressa potrebbe iniziare a fare per sentirsi meglio, come ad esempio riconoscere i propri punti di debolezza connessi ai propri valori, imparare ad anticipare le realistiche conseguenze delle azioni rendendole coerenti con i propri obiettivi, liberarsi dai sensi di colpa eccessivi, mantenere integri i propri confini personali ecc.
Michael D. Yapko descrive alcuni specifici patterns mentali che inducono alla depressione e proprone, all’interno di ogni capitolo, dei compiti pratici, in modo che il lettore possa diventare una parte attiva nel proprio processo di guarigione. Le tipologie di esercizi sono essenzialmente due: il primo, chiamato “Fermati e rifletti”, chiede di prendere in seria considerazione alcuni concetti legati all’argomento trattato, il secondo, chiamato “Imparare facendo”, suggerisce un’esperienza di apprendimento da portare avanti attivamente.
Secondo Giorgio Nardone, che ne ha curato la presentazione, il libro espone in maniera molto chiara e accessibile al largo pubblico non solo l’approccio clinico di Yapko, ma soprattutto le modalità per prevenire il costituirsi della patologia depressiva.
Grazie alle indicazioni offerte infatti, il lettore può imparare ad evitare l’innescarsi di quella reazione a catena di dinamiche personali e interpersonali che lo portano a cadere nella depressione.
“Dedicare dieci minuti al giorno, per un mese, a fare una cosa nuova, mai sperimentata prima”: questa è la prescrizione che la psicologa dà a Chiara, la protagonista del romanzo di Chiara Gamberale: “Per dieci minuti” (Feltrinelli, 2013).
Chiara è una donna segnata dalla vita: un matrimonio fallito alle spalle, l’abbandono della casa in cui è cresciuta, le ingiustizie sul luogo di lavoro, insomma una persona depressa, che ha iniziato a chiudersi, a rinunciare, che ormai non ha più niente da perdere.
Chiara, per riuscire a portare un po’ di luce nel buio della sua esistenza, inizia a mettere in atto esperienze per lei completamente sconosciute, come cucinare pancake, ballare l’hip-hop, mettere uno smalto fucsia, imparare a suonare il violino o a fare il punto croce…
Tutti questi esperimenti portano un’inaspettata ventata di novità nella sua vita e le permettono di riprendere contatto con il mondo che la circonda.
Da questo percorso, ha inizio un profondo cambiamento, fatto di piccoli cambiamenti, di piccole azioni quotidiane che portano ad una grande rivoluzione interiore.
Alla fine del libro, Chiara si dice stupita di quante cose diverse dalla routine sia stata in grado di fare, ma soprattutto di imparare in quei dieci minuti quotidiani, e afferma di essere ancora più sorpresa dall’aver scoperto quanto di bello e di buono già c’era intorno a lei.
Si tratta di un romanzo leggero, ma molto ricco di spunti di riflessione, che spesso consiglio ai pazienti che vogliano uscire dalla depressione o che desiderino semplicemente reimpostare la loro vita in maniera più originale e creativa.
Un film italiano coraggioso e semplice, di cui consiglio vivamente la visione, è “Easy: un viaggio facile facile”, opera prima del regista Andrea Magnani.
Si tratta di un road-movie in cui gli spazi fanno da protagonista, che affronta in modo molto ironico il tema della depressione, facendo ruotare tutto intorno all’unico attore, David di Donatello, Nicola Nocella.
Isidoro, per i familiari Easy, ha 35 anni ed è stato una promessa dell’automobilismo competitivo fino a quando non ha cominciato a prendere peso. Ora vive con la madre e si imbottisce di antidepressivi, fino al giorno in cui il fratello non gli chiede un favore speciale: un operaio ucraino è morto sul lavoro e la salma va riportata in Ucraina senza troppe formalità. Easy può così tornare a guidare… un carro funebre.
Non si tratta solamente di un viaggio interiore nell’area depressiva, ma anche nell’Europa dell’est attuale.
Un viaggio, secondo Giulio Fontò, psicologo e psicoterapeuta, che ha commentato il film quando è stato proiettato alla Casa della Psicologia, dal buio alla luce, dalla morte alla vita, da una condizione di immobilismo ad una di apertura.
Il tempo vissuto è la prima dimensione che si blocca nella depressione. L’emozione fondamentale è la tristezza e la persona rimane vincolata all’esperienza dei propri fallimenti passati, senza nessuna progettualità futura.
La malattia diventa l’unica compagnia e lo spazio si fa buio, chiuso. Il corpo è pesante e pressoché incapace di qualunque presa sul mondo.
Solo l’individuazione di uno scopo pone il protagonista del film all’interno di un ruolo. Il tempo così comincia a scorrere velocemente, lo spazio si apre e anche il corpo inizia ad animarsi, fino alla catarsi finale, in cui si schiude anche il registro del sentire affettivo.